Strategie per intercettare i soggetti a rischio di tumori ereditari

Negli anni sono stati sperimentati diversi approcci per identificare le persone con sindromi di predisposizione al cancro, con risultati più o meno soddisfacenti. La differenza potrebbe farlo una comunicazione chiara ed efficace

Almeno il 10% dei tumori è causato da una suscettibilità ereditaria che può essere identificata con test genetici, dando la possibilità ai portatori di accedere a programmi di sorveglianza mirati in grado di ridurre la mortalità di diversi tumori ereditari, tra cui neoplasie mammarie, ovariche, della prostata e del colon-retto. Oggi però l’identificazione della maggior parte dei portatori avviene dopo una diagnosi di cancro, perdendo un’importante opportunità di prevenzione.

Per cercare di intercettare i portatori di sindromi ereditarie tumorali sono stati sperimentati diversi approcci, con risultati molto variabili. Approfondiamo il tema con Emanuela Lucci Cordisco, genetista medico all’IRCCS Policlinico Universitario Gemelli di Roma e ricercatrice all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Emanuela Lucci Cordisco

I “criteri base” per intercettare i portatori

«I portatori di sindromi genetiche di predisposizione al cancro, se identificati, dovrebbero avere un vantaggio in termini di prevenzione – premette Lucci Cordisco -. L’obiettivo dei genetisti è sempre stato quello di individuare tra tutti coloro che hanno un tumore chi si è ammalato per una predisposizione genetica. Oggi è possibile individuare i soggetti a rischio genetico anche prima che si ammalino e mettere in atto strategie mirate di sorveglianza».

Finora gli strumenti per raggiungere l’obiettivo di intercettare i tumori ereditari sono stati essenzialmente fattori inerenti la neoplasia (tumore raro, con istotipo particolare, ecc.), la storia personale del paziente, come tumore insorto in giovane età o sviluppo di più neoplasie, e quindi l’aggregazione familiare, ovvero la storia di tumori nella famiglia. «Come rivela uno studio condotto alcuni anni fa, seguendo questi criteri si riesce a individuare solo circa il 50% dei soggetti con predisposizione genetica, questo perché per esempio, non è detto che il tumore insorga in età precoce, che la famiglia su cui si indaga sia numerosa oppure che si abbiano notizie corrette sulla storia di malattia dei familiari» continua la genetista.

La profilazione genomica per fini terapeutici

Nel tempo si sono cercati altri strumenti per identificare i portatori di alterazioni genetiche ereditarie. «Uno strumento oggettivo che, sempre più in anni recenti, sta permettendo l’identificazione “casuale” di una variante germinale, è rappresentato dalla profilazione genomica su tessuto tumorale per identificare mutazioni suscettibili al trattamento con farmaci specifici» segnala Lucci Cordisco. Alcune mutazioni del tumore possono infatti essere spia di una possibile alterazione germinale che può essere confermata, dopo la consulenza oncogenetica, con l’esecuzione di test genetici sul sangue. «Questo approccio ha portato effettivamente a verificare che chi ha una predisposizione genetica non sempre ha le neoplasie note per essere associate a quella sindrome, ma anche altri tipi di tumori e può svilupparli anche in età avanzata» aggiunge Lucci Cordisco.

Lo screening universale per la sindrome di Lynch

Nel caso specifico della sindrome di Lynch, c’è un altro strumento che oggi può aiutare a identificare i portatori di questa condizione genetica di predisposizione ai tumori. Si tratta dello screening universale con un semplice test immunoistochimico sul tessuto tumorale. Le linee guida internazionali, le raccomandazioni di diverse società scientifiche e i decreti di alcune regioni in Italia raccomandano che chiunque venga operato per un tumore al colon-retto o all’endometrio, sia sottoposto al test universale con lo scopo di identificare un deficit del mismatch repair e, in caso di positività, inviato alla consulenza genetica e al test genetico per identificare la sindrome di Lynch. «Sapere di avere la sindrome di Lynch ha implicazioni terapeutiche importanti per il paziente, ma anche ricadute sui familiari a rischio per la messa in atto di strategie di prevenzione primaria e secondaria» puntualizza Lucci Cordisco.

L’intermediazione del medico di famiglia

Di recente alcuni ricercatori statunitensi, autori di uno studio pubblicato sulla rivista JAMA Network Open, hanno valutato due modi con cui gli studi di medicina generale potrebbero valutare il rischio di cancro ereditario dei pazienti e quindi sottoporre al test genetico quelli identificati come a più alto rischio, attraverso un semplice test salivare inviato direttamente a casa degli interessati. Nello studio, un approccio prevedeva di chiedere ai pazienti quando venivano in ambulatori di compilare un questionario prima di vedere il loro medico (point-of-care). Il secondo approccio prevedeva invece l’invio di una serie di lettere o e-mail ai pazienti, invitandoli a compilare il questionario online da casa (coinvolgimento diretto del paziente). I questionari chiedevano informazioni sulla storia del cancro dei pazienti e dei loro parenti di primo (genitori, fratelli e figli) e secondo grado (nonni, zii e nipoti), nonché informazioni etniche rilevanti, come l’ascendenza ebraica ashkenazita, associata a un rischio genetico di diversi tumori per la diffusa presenza di alcune varianti nei geni BRCA. Ebbene i dati raccolti mostrano che solo una bassa percentuale di pazienti ha compilato i questionari in presenza (19%) od online (8%) e che pochi soggetti hanno poi eseguito il test genetico (44,7% gruppo coinvolgimento diretto e 24,7% gruppo point of care).

«Questi dati mostrano che bisogna trovare uno strumento valido per offrire alle persone la possibilità di eseguire il test genetico, ma poi anche favorirne l’adesione. E questo probabilmente è lo step più difficile perché se una persona non ha ben capito cosa sta facendo, non partecipa».

Test genetici a tutti

Un’altra strategia per identificare i portatori di varianti patogenetiche associate ai tumori ereditari, potrebbe essere fare test genetici a tappetto sulla popolazione. «Questo approccio è stato sperimentato negli ebrei ashkenaziti, nei quali alcune specifiche varianti patogenetiche (varianti della sequenza del DNA chiaramente associate a predisposizione) dei geni BRCA1 e 2 sono diffuse – racconta Lucci Cordisco -. Tuttavia questa strategia a tappeto sulla popolazione generale è ancora molto dispendiosa e pone anche delle problematiche, tra le quali il riscontro di varianti di significato incerto (varianti del DNA non chiaramente associate a predisposizione)».

L’importanza di un’adeguata informazione

Alla luce dei pro e contro delle diverse strategie messe in atto per migliorare l’identificazione dei portatori di varianti patogenetiche di predisposizione al cancro, probabilmente l’aspetto fondamentale su cui battere il chiodo è quello dell’informazione, come fa notare Lucci Cordisco. «In medicina si parla di “scelta consapevole”. Questo termine, che è alla base del consenso informato, ci ricorda che alla base della consapevolezza ci sono la comprensione e la corretta informazione. Credo che si debba fare uno sforzo di comunicazione per far capire l’utilità dei test genetici ai fini della prevenzione. È fondamentale far comprendere le ricadute molto pratiche in termini di diminuzione del rischio legate alla sorveglianza per chi è portatore. Il test genetico e la scoperta di una sindrome di predisposizione al cancro vengono spesso visti come una spada di Damocle, ma in realtà il test rappresenta un’opportunità di “poter fare qualcosa” nei confronti di una predisposizione che comunque c’è e che prima o poi potrebbe emergere. Bisogna inoltre far capire le ricadute derivanti dall’identificazione non solo dei portatori ma anche di quelli che non lo sono: a livello personale (passaggio del rischio da “alto” a “uguale” alla popolazione generale) e a livello sociale (controlli come nella popolazione generale con notevole risparmio). Un grande sforzo va fatto dunque non solo sul versante scientifico/tecnologico, ma anche su quello della comunicazione del significato e delle ricadute del test genetico» conclude Lucci Cordisco.

Antonella Sparvoli

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