Gli infermieri: una risorsa ancora sottovalutata per un sistema sanitario più umano e sostenibile

Nel dibattito sulla crisi del nostro Servizio Sanitario Nazionale si parla da tempo della carenza dei medici, dei pronto soccorso affollati, dei tempi di attesa per le prestazioni insostenibili. Più raramente si mette a fuoco un’altra grande emergenza: la situazione delle professioni infermieristiche. Eppure, senza infermieri in numero adeguato, opportunamente formati e valorizzati nei percorsi di cura, nessun sistema sanitario può reggere. Né oggi, né – soprattutto – domani.

Il recente Rapporto del Laboratorio Management e Sanità della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha acceso i riflettori su questo tema con alcune cifre drammatiche. In Italia mancano almeno 65.000 infermieri rispetto agli standard europei. Le retribuzioni restano tra le più basse dell’area OCSE e molti professionisti, dopo essersi formati con buoni standard qualitativi nelle nostre università, emigrano verso Paesi che offrono prospettive economiche e professionali più gratificanti. È un paradosso su cui dovremmo interrogarci seriamente: formiamo bene le nostre risorse umane, ma poi non siamo capaci di valorizzarle e spesso anche di trattenerle.

Ma non si tratta solo di numeri, di contratti e di stipendi. Il tema è anche culturale, organizzativo, strategico. Siamo ancora prigionieri di una rappresentazione arcaica e gerarchica delle professioni sanitarie, dove il medico sta al centro e gli altri operatori gli ruotano attorno in ruoli esecutivi e spesso marginali. Questa visione è non solo inadeguata, ma controproducente. La medicina moderna, e in particolare quella personalizzata, impone complementarità, multidisciplinarietà, integrazione e lavoro di squadra. Gli infermieri non sono solo un supporto, ma una parte costitutiva del complessivo processo di cura. E in molti contesti – territorio, prevenzione, pazienti acuti e cronici – sono spesso la figura di riferimento principale per i pazienti.

Le criticità oggi sono sotto gli occhi di tutti. Le retribuzioni sono basse, la fatica fisica ed emotiva è alta, le opportunità di carriera limitate, i percorsi formativi specialistici poco valorizzati. Gli infermieri che lasciano l’Italia lo fanno non per ingratitudine o sfida, ma per delusione o disperazione. E chi decide di restare spesso lo fa a caro prezzo, in un sistema che richiede molto e riconosce poco, non solo a livello economico. A questo si aggiunge un problema di numeri: l’Italia è tra i Paesi europei con il più basso rapporto infermieri/popolazione; il carico di lavoro è diventato insostenibile e la qualità dell’assistenza ne risente pesantemente. Eppure, come sempre nella crisi si cela anche una grande opportunità: quella di ripensare radicalmente il ruolo degli infermieri nel sistema sanitario, riconoscendone finalmente la funzione strategica per garantire prossimità, continuità, umanità, sostenibilità.

Il concetto chiave da cui ripartire è quello della complementarità. Medici e infermieri hanno competenze diverse, ma convergenti. Il medico formula diagnosi e terapie, ma è l’infermiere a garantire spesso che quelle terapie siano comprese, metabolizzate, attuate in modo adeguato, monitorate nel tempo. In molti ambiti – come la cronicità, la geriatria, l’oncologia, la genetica medica – l’efficacia clinica dipende non solo dalla bontà di diagnosi e prognosi, ma dalla capacità del sistema di accompagnare il paziente attraverso un percorso lungo, complesso e carico di implicazioni personali. Parlare di riequilibrio professionale non significa limitare l’importanza dei medici, ma al contrario rafforzarla attraverso alleanze professionali solide, basate sulla fiducia e sulla collaborazione. La presa in carico è sempre più un processo multiprofessionale e al suo interno l’infermiere riveste una posizione propria, distinta e insostituibile.

Uno dei grandi pregi della professione infermieristica è la trasversalità: la capacità di operare efficacemente in contesti diversi, dando risposte a bisogni di salute e cura variegati:

  • nella sanità territoriale, l’infermiere di famiglia e comunità è spesso il primo presidio di prossimità, in grado di intercettare segnali precoci, supportare l’autogestione delle malattie croniche, mantenere il contatto tra pazienti, caregiver e servizi;
  • in ambito ospedaliero, l’infermiere è la figura costante che garantisce assistenza continua, coordinamento tra professionisti, attenzione ai bisogni quotidiani dei pazienti;
  • nella prevenzione e nella sanità pubblica, gli infermieri sono agenti di salute, promotori di corretti stili di vita, operatori nei programmi di screening e nelle campagne di vaccinazione, punti di riferimento per l’educazione sanitaria;
  • nella riabilitazione e nella assistenza a lungo termine sono spesso il collante che tiene insieme dimensione clinica, funzionale e umana.

Oltre alla dimensione di cura e assistenza, gli infermieri oggi sono sempre più coinvolti anche in ambiti gestionali, organizzativi e di ricerca. Nel case management, ad esempio, sono spesso responsabili della programmazione e del monitoraggio di percorsi di cura complessi. Nelle organizzazioni sanitarie, assumono sempre più spesso ruoli di coordinamento, contribuendo alla gestione delle risorse e al miglioramento continuo dei processi. Nel campo della ricerca clinica, svolgono un ruolo chiave nella raccolta e gestione dei dati, nell’informazione ai pazienti, nella verifica di aderenza ai protocolli. Sempre più spesso sono coautori di studi, promotori di iniziative, protagonisti della cosiddetta “ricerca infermieristica”, orientata all’ottimizzazione delle pratiche assistenziali.

Cosa occorrerebbe fare per valorizzare realmente le professioni infermieristiche?

  • Riconoscere e premiare le competenze avanzate, anche attraverso ruoli formali di responsabilità clinica e organizzativa;
  • costruire percorsi di carriera che consentano progressione professionale e retributiva;
  • rafforzare la formazione universitaria, inclusi i percorsi di laurea magistrale, master e dottorato, e valorizzare le specializzazioni;
  • investire sul benessere organizzativo, con attenzione al carico di lavoro, alla qualità degli ambienti, alla tutela psicologica;
  • includere gli infermieri nei processi decisionali sanitari, a livello di governance, programmazione, politiche sanitarie.

La valorizzazione delle professioni infermieristiche non può essere solo una risposta di tipo settoriale o di categoria, ma parte integrante e qualificante di una riforma complessiva del sistema sanitario, in tutte le sue componenti. È necessario dotarsi di una visione unitaria che metta al centro:

  • la prossimità e la capacità di risposta del sistema ai bisogni delle persone nei territori;
  • la continuità dei percorsi di cura e assistenza, superando le barriere tra ospedale e territorio;
  • la sostenibilità, che richiede modelli organizzativi efficienti e capaci di usare al meglio tutte le risorse professionali disponibili;
  • l’umanizzazione delle cure, che passa anche dalla qualità della relazione tra operatori sanitari e pazienti.

In questa cornice, rafforzare la componente infermieristica è nell’interesse di tutti: dei pazienti, dei medici, dell’organizzazione del sistema e delle istituzioni sanitarie nel loro insieme.

Nell’attività di advocacy della Fondazione Mutagens ci confrontiamo ogni giorno con i bisogni dei portatori di sindromi ereditarie, che necessitano di un approccio personalizzato, multidisciplinare e di rete. In questo contesto, la presenza di infermieri clinici esperti, come le case manager o le nurse navigator, è essenziale per la qualità della presa in carico. Queste figure rappresentano spesso l’unica interfaccia costante per le persone che si confrontano con il sospetto o la diagnosi di una predisposizione genetica. Sono loro a raccogliere preoccupazioni e informazioni, orientare verso i percorsi di counseling, programmare gli esami diagnostici e le visite specialistiche, facilitando il modello multidisciplinare. Sono anche coloro che – più di altri – costruiscono un rapporto umano e fiduciario con i pazienti, sostenendoli nei momenti più delicati e difficili. In patologie dove il tempo (di accesso, di diagnosi, di decisione) è decisivo, la presenza di un infermiere dedicato può fare la differenza. Non solo sul piano dell’efficacia e dell’efficienza, ma anche su quello relazionale ed emotivo: sapere di non essere soli, avere un riferimento stabile e competente, cambia profondamente l’esperienza di malattia nella prospettiva del paziente.

In conclusione, la necessità di valorizzare le professioni infermieristiche è molto più che una questione contrattuale ed economica. Si tratta di una scelta di sistema, che riguarda la qualità, l’equità, l’umanità e la sostenibilità del nostro servizio sanitario. Ma si tratta anche di una scelta di civiltà: riconoscere il valore del lavoro di cura, del sapere relazionale, dell’attenzione ai bisogni dei più fragili. Come Fondazione Mutagens continueremo a promuovere una visione integrata alla Salute dei Cittadini, dove ogni professionista – medico, psicologo, tecnico, infermiere, impiegato e manager – possa contribuire nei percorsi di cura al meglio delle proprie competenze. E continueremo a dare voce a chi, ogni giorno, è vicino alle persone e ai pazienti non solo con la propria professionalità ma anche con la presenza, l’ascolto, la responsabilità e l’umanità.

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