La storia di DeborahSono Deborah, ho 48 anni, pavese nel cuore, globetrotter per necessità professionali. Ho vissuto in Germania, sulle Dolomiti, in Maremma, a Torino. E di tutti questi luoghi porto qualcosa dentro di me, oggi che la mia base è sul Lago Maggiore. Le mie radici, e un pezzo del mio cuore, sono però a Pavia, dove ho vissuto per 20 anni, mi sono laureata e ho costruito una parte fondamentale della mia vita. È per questo che ogni tanto corro a vedere il mio Ticino, la mia università e anche la mia nebbia padana.Da giornalista, reporter di cronaca e di guerra, sono oggi responsabile della comunicazione interna in una multinazionale operante nel largo consumo.Mi sono ammalata di tumore al seno, la prima volta, a 25 anni, sei mesi prima di laurearmi. Ho vissuto intervento, chemio e radio, come uno stop forzato, una brutta parentesi che poi sarebbe stata dimenticata. Quadrantectomia e svuotamento del cavo erano “solo” parole nuove entrate nel mio vocabolario. E nel mio quotidiano. Che, tuttavia, spesso differiva da quello dei miei coetanei.A 43 anni, la seconda malattia, sempre al seno, sempre dalla stessa parte. Questa volta si parla di mastectomia, e di nuovo di chemio, per un anno e mezzo. Un po’ più dura da mandare giù, ma la sfida è sempre la stessa: continuare a fare tutto come prima, sciare anche se dopo una pista volevo solo un divano su cui sdraiarmi, lavorare perché almeno non c’è tempo per pensare, vivere senza sosta i giorni fuori dall’ospedale.Poi la scoperta di essere portatrice di mutazione BRCA2, la chirurgia profilattica (mastectomia controlaterale e annessiectomia), le terapie e gli effetti collaterali, i controlli periodici e l’angoscia da gestire.Ho imparato a convivere con la paura. E ho imparato dalla paura. Ho imparato a godere del sole, di un sorriso, dello scodinzolio dei miei cani, dell’ultimo cucchiaino di una coppa di gelato.Amo la vita. E la temo. Qualcuno ha scritto e cantato che la vita è una “gran signora” e si “paga a ore”. Quindi tanto vale godersela.“Sorridere. Sempre”. È il mio mantra.“Si può fare”, un insegnamento prezioso, scolpito nel cuore, che non dimentico mai.La barca a vela è per me una scuola di vita, mi ha insegnato a regolare le vele in base a come soffia il vento. Ogni giorno. Lo sport, il nuoto, lo sci, le mie valvole di sfogo, la via di fuga per staccare da tutto e tutti. Insieme ai miei libri e alla musica.Mutagens rappresenta per me una straordinaria opportunità per dare un senso a quello che ho vissuto e affrontato: è un onore essere parte di questa squadra, è la sensazione profonda che a qualcosa è servita la malattia. Credo profondamente nella missione di Mutagens, nella ricerca, nella prevenzione e nell’assoluta necessità di creare consapevolezza, promuovere informazione e sensibilizzare le comunità e le istituzioni sull’importanza dei percorsi di presa in carico strutturati e accessibili. Grazie a Mutagens anche il mio DNA è con la ricerca per il futuro.Condividi sui socialFacebookLinkedInTwitter
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